da un mesetto ormai ho iniziato a vedere un nuovo terapeuta. mi piace molto.
non solo mi fa domande inaspettate, spingendomi a cercare risposte a quesiti che non mi ero mai posta, ma getta una luce diversa sulle esperienze di cui gli parlo. alcune cose che mi fa notare sono miei vecchi limiti, già esplorati (e chiaramente non risolti) con le mie vecchie terapeute, altre sono novità — che o non ritenevo importanti fino ad adesso, o non ho voluto ritenere tali.
quando l’associazione che avevo contattato mi ha assegnato un terapeuta maschio, sulle prime ero molto scettica — per due ordini di ragioni.
la prima è che negli ultimi anni ho sviluppato una sorta di misandria latente. non odio gli uomini, odio il maschile — come costrutto sociale, come classe privilegiata, come categoria che non si è mai dovuta scontrare con una serie di problematiche e ansie che invece il femminile deve affrontare ogni giorno. inoltre, proprio per ragioni pedagogiche e di condizionamenti sociali, trovo che molti uomini siano carenti di una sensibilità che invece accomuna molte donne — proprio perché non hanno esperito le problematiche di cui sopra — e che ritengano che l’unico sguardo sul mondo possibile sia il proprio, o che, ancora peggio, il loro punto di vista sia un punto di vista neutrale, che accomuni tutt*. questa è una cazzata.
la seconda è che, per qualche curioso motivo, ho bisogno di piacere agli uomini. vorrei piacere a tutt*, sempre, ma mi rendo conto che quando c’è anche solo un uomo nella stanza, il mio atteggiamento cambia. come se l’essere simpatica, desiderabile, divertente e affabile per lui fosse l’unico modo per sentire validato il mio continuare ad esistere. non ne vado fiera, ma sto cercando di essere molto onesta nei confronti di me stessa e quindi che senso avrebbe negarlo.
ecco, quando ho saputo che il mio nuovo terapeuta sarebbe stato un uomo, ho pensato che non mi sarebbe davvero servito; che non sarei stata capace di essere trasparente perché troppo impegnata a mostrarmi appealing; che non avrebbe capito tre quarti delle mie problematiche; che sarebbe stato imbarazzante parlare di sesso (o peggio, l’avrei fatto in modo simil-civettuolo). tutte queste profezie si sono rivelate profondamente sbagliate. con lui mi sento estremamente a mio agio e non mi vergogno di confessargli i miei pensieri più reconditi (compresi i miei dubbi sull’avere un terapeuta uomo).
nel frattempo, continuo a sognare persone che non vorrei più avere nella mia vita e men che meno nel mio mondo onirico. mi chiedo quanto le dinamiche di coppia dei miei genitori abbiano irrimediabilmente danneggiato il mio modo di vivere le relazioni. ma soprattutto, mi chiedo (come mi ha chiesto il mio psicologo) come faccia a tracciare così nettamente un confine tra quello che do e quello che sono.
una volta il mio ex mi ha detto che sono diversa da quello che sembro. che con le persone che non conosco o a cui voglio piacere (e.g., genitori, insegnanti, potenziali partner) mi comporto in un modo ma che in realtà, quando mi si conosce, sono diversa. il succo del suo discorso credo fosse che il mio atteggiamento sia ipocrita. all’epoca mi arrabbiai molto (avevo un’enorme quantità di rabbia nei suoi confronti e nei miei), ma è esattamente così. non penso sia una caratteristica posseduta solo da me, penso che tutt*, chi più, chi meno, ci mostriamo in un modo quando non conosciamo qualcuno e poi pian piano reclamiamo più spazio, più attenzioni, più comprensione con il passare del tempo. credo sia fisiologico. c’è davvero, però, questo grande divario tra ciò che mostro e ciò che sono? e se c’è, in fondo, non dipende dal fatto che all’inizio non faccio altro che dare, dare, dare, nel disperato tentativo di essere apprezzata? e se questo dare, dare, dare ad un certo punto diventa troppo estenuante, cosa dovrei fare? fingere che non sia così? continuare ad insistere? trovare altri modi (opinabili) per autodeterminarmi — come ha fatto mia madre?
non so se ci sia un modo per conciliare queste due istanze, se forse dare un po’ meno ed essere un po’ di più possa essere una soluzione, se sia possibile vivere senza voler necessariamente piacere a tutti i costi. ai posteri l’ardua sentenza.